Bisogna scegliere: o le cave o il parco archeologico (Salvatore Settis)

Io non parlerò di un caso singolo perché non ho esperienza diretta di gestione di parchi archeologici. Vorrei porre qualche problema di principio e vorrei dire perché ritengo che il tema che avete scelto per questo incontro sia un tema importante. Lo è per mille ragioni che sono auto-evidenti e per una in più che certamente è chiara a tutti ma che vorrei sottolineare in maniera particolare, come punto di partenza. Il tema del parco archeologico (anche se la formula definitoria è recente) è importante perché è un tema-cerniera fra due ambiti di grandissima importanza: il paesaggio e il patrimonio culturale. Non lo abbiamo inventato noi che c’è un rapporto tra questi due temi, ma la Costituzione della Repubblica che all’articolo 9 recita: “La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. E quindi mette insieme patrimonio e paesaggio, in maniera che certo era molto lungimirante nel 1948, ma di fatto è ancor più lungimirante, perché tale congiunzione dei due aspetti risale alla legislazione parallela del 1939 con le due leggi Bottai: una sui beni culturali (1089) e l’altra sul paesaggio (1497).

Questa particolare situazione, la Costituzione di un Paese europeo moderno che pone tra i principi fondamentali dello Stato la tutela del paesaggio e del patrimonio storico artistico, non è in nessun modo banale. L’Italia è stato il primo Paese che lo ha fatto; e oggi sui circa duecento Paesi dell’Onu soltanto una ventina hanno un qualche principio di tutela nella loro costituzione, e di questi soltanto tre hanno questo principio fra quelli fondamentali dello Stato: l’Italia, il Portogallo e Malta. Gli articoli relativi della costituzione del Portogallo e di Malta sono le traduzioni dell’articolo 9 della nostra Costituzione. Almeno in questo, l’Italia ha dunque fatto scuola. Il dettato della Costituzione va sottolineato come un’alta conferma dell’importanza concettuale e istituzionale del legame fra il paesaggio e il patrimonio artistico e archeologico. E’ molto importante ricordarsi anche che, mentre la tutela di quelli che oggi chiamiamo beni culturali ha una storia lunghissima che incomincia in Italia prima che l’Italia esistesse, con gli antichi stati italiani (in particolare il Regno di Napoli e gli Stati Pontifici e poi tutti gli altri, per quanto riguarda la consapevolezza della tutela del paesaggio il tema è molto più recente.

Non tutti sanno forse che le prime leggi di tutela del paesaggio furono dovute a un Ministro della pubblica istruzione – da cui dipendevano allora i beni culturali – il cui nome è molto conosciuto, Benedetto Croce. E’ lui che come Ministro vara nel 1920, con una grandissima consapevolezza culturale, una legge di tutela del paesaggio che è tutt’altro che estetizzante, anzi manifesta rispetto alla storicità del paesaggio una particolare intelligenza e densità. Ma non è neppure un caso che il primo paesaggio italiano tutelato sia stato quello di Ravenna, la cui pineta era insidiata – come abbiamo visto per Piombino – da insediamenti industriali, ma era anche adiacente a un centro monumentale e archeologico di primaria grandezza. Come si vede, i temi del paesaggio, dell’ambiente e dei beni culturali si legano molto strettamente fra di loro.

Non posso tuttavia fare a meno di sottolineare quanto la terminologia “parco archeologico” sia troppo spesso considerata una sorta di astuzia del marketing nei confronti del turismo. Naturalmente non ho proprio nulla contro il turismo. Ma la priorità non è il turismo, la priorità è la tutela. Noi non tuteliamo per poter avere i turisti. Perché se così fosse, nel momento in cui il flusso turistico dovesse calare dovremmo smettere di tutelare, e magari vendere, quadri e monumenti;vorrebbe dire che tuteliamo solo per far soldi. Noi, al contrario, abbiamo il dovere di tutelare patrimonio e paesaggio anche se di turista non ce ne dovesse essere nemmeno uno. Tuteliamo perché lo dice la Costituzione; e lo dice perché il patrimonio culturale e il paesaggio del nostro Paese è la nostra anima. La presenza di flussi turistici va naturalmente benissimo, ma va distinta concettualmente dal principio della tutela: perché le ragioni della tutela non sono in funzione del turismo, ne dell’economia. Sono in funzione della cultura, della storia, dell’identità civica e di quel meccanismo di identificazione della società con la propria storia che a sua volta genera quell’orgoglio civico, quella letizia dell’esistere che ha degli effetti anche economici (sulla produttività dei cittadini) molto più grandi di quelli del turismo.

Di questo io credo che dobbiamo ricordarci sempre quando parliamo dei musei e dei parchi archeologici. E qui non posso che sposare e condividere quello che diceva prima Gherpelli sulle invenzioni lessicali, sulla straordinaria abilità che la tradizione giuridica o i legulei di questo Paese hanno saputo inventare nel segmentare quello che la Costituzione così mirabilmente chiamava tutela e nell’inventare sotto-insiemi spesso pretestuosi: la gestione, la valorizzazione, e così via: quando è perfettamente chiaro che tutela, valorizzazione, gestione, fruizione ecc. costituiscono un continuum. Abbiamo trovato il modo di spezzettarlo defunzionalizzando la tutela; e, con una infelicissima riforma costituzionale del Titolo Quinto della Costituzione la separazione perversa oltre che impraticabile fra valorizzazione e tutela. Il problema politico era allora di dare un ruolo alle Regioni, sia ai Comuni e alle Provincie. Giustissimo, inevitabile. Ma per far questo non era necessario modificare la Costituzione e inventarsi il bizzarro divorzio fra tutela (in capo allo Stato) e valorizzazione (in capo alle Regioni). Concetto intraducibile in altre lingue e in altri sistemi giuridici, disfunzionale e contrario a ogni buona pratica. Anche per i parchi archeologici quest’osservazione va ripetuta con forza.

Questo continuum va dunque ricomposto. E ciò riguarda soprattutto il tema del paesaggio che in questo momento dobbiamo aver presente. Non solo perché il tema del paesaggio è molto legato a quello dei parchi archeologici, ma anche perché il paesaggio è il grande malato d’Italia. Non è vero, come qualcuno dice, per il solito pessimismo dei toscani, che la Toscana è il fanalino di coda. Fanalini di coda sul paesaggio, sul consumo del territorio e sulla distruzione delle coste sono altre regioni: la mia Calabria, la Liguria, il Veneto… è lì che ci sono i problemi più gravi. La Toscana sta meglio. Forse non è la regione che sta meglio ma come dappertutto problemi ce ne sono. Occorrerebbe un intervento molto deciso sul paesaggio, a livello nazionale come a livello locale, in tutte le regioni d’Italia. Anche in Toscana, naturalmente.

Una riflessione complementare: la Costituzione mette insieme, con una grande visione dall’alto, il paesaggio e il patrimonio artistico, culturale e archeologico. Che cosa abbiamo fatto invece a livello normativo nella Repubblica? Abbiamo inventato un curioso sistema per cui abbiamo moltiplicato l’Italia per tre. Abbiamo triplicato il territorio nazionale: abbiamo una cosa che si chiama “territorio”, una che si chiama “paesaggio” e una che si chiama “ambiente”. Tre penisole separate che sono normate da leggi separate e conflittuali fra loro, tanto che non arriveremo mai a niente se non cambiamo radicalmente questa normativa attraverso accordi tra tutte le parti. E quando dico tutte le parti non mi riferisco solo a Stato e Regioni, perché ad esempio per quello che riguarda il rapporto tra beni culturali, paesaggio e ambiente la materia è divisa tra due ministeri, quello dei Beni culturali e paesaggistici (prima anche “ambientali”), e quello dell’Ambiente. Abbiamo assistito nella passata legislatura a conflitti e contraddizioni impressionanti: il codice Urbani per i Beni Culturali che vieta la depenalizzazione di ogni reato contro il paesaggio, e pochi mesi dopo una legge sull’ambiente che dice l’incontrario. Ma chiediamoci: c’è un territorio senza paesaggio e senza ambiente?

Un paesaggio senza ambiente e senza territorio? Un ambiente senza territorio e senza paesaggio? La ricomposizione che qui sto auspicando è straordinariamente difficile. La segmentazione normativa di cui abbiamo parlato ha forse uno scopo sotterraneo, ed è quello di rendere tutto più complesso e meno controllabile, di rendere possibili gli abusi. Si apre in tal modo lo spazio per trasformare il paesaggio in moneta  per il voto di scambio, con danni spesso irreversibili. Non sto accusando nessuno in particolare perché, di fatto, è questa una storia che si dipana lungo tutti i governi della Repubblica e con tutte le maggioranze che ci sono state, fino ad oggi. Prima o poi spero che questa necessità di ricomposizione si avverta, e che si avverta anche la necessità che i poteri pubblici si accordino fra loro e che capiscano che anziché accapigliarsi per prendere un pezzettino di valorizzazione o un angolino di tutela sarebbe meglio lavorare insieme, partendo dalle esigenze del patrimonio piuttosto che dalle ambizioni degli assessori o dei ministri.

Vorrei fare ora qualche esempio che conosco personalmente, e che riguarda più da vicino il nostro tema. Avevo pensato di proporre un caso positivo e uno negativo, prendendoli entrambi dal remoto sud da cui vengo, ma ho deciso, poco fa, di aggiungerne un terzo, problematico. Il caso positivo mi è accaduto la settimana scorsa, ero a Segesta, in Sicilia, dove la Scuola Normale di Pisa ha uno scavo importante sull’agorà, dietro il teatro, che sta conducendo a risultati di grande rilievo. Ma un certo lato dell’agorà non si poteva scavare perché sopra c’è una baracca, destinata ai “servizi aggiuntivi” – altro totem del nostro tempo – che però è quasi sempre vuota. Da tempo si cercava di rimuovere questa baracca, e ho avuto la fortuna di trovarmi lì nel giorno in cui visitava Segesta il Presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Gianfranco Micciché. Ha visto la baracca, si è scandalizzato, mi ha chiesto cosa ne pensavo, gliel’ho detto e martedì prossimo sarà finalmente abbattuta. Questo vuoi dire che si potrà finalmente scavare in quel luogo; ma anche che non sarà più nascosta la veduta che la baracca ha bloccato per anni, uno dei panorami più belli di Segesta. Si tratta di un caso positivo che mostra come a volte sia sufficiente una minima volontà politica di una persona intelligente che si trova sul posto e che non teme di agire.

L’esempio negativo viene invece dalla mia Calabria ed è quello del Parco Archeologico di Scolacium, un parco non molto visitato in cui, con l’intento di aumentare il numero di visitatori, fu deciso di porre delle sculture contemporanee. Lo scultore ebbe l’idea di far emergere le sue sculture di ferro dalla terra: alcune erano appoggiate, altre un po’ sotto la terra e alcune infine quasi del tutto sottoterra. Bella idea. Ma c’è un piccolo particolare: era un sito archeologico. Come si fa a scavare delle buche in un sito archeologico? La risposta – non voglio dire di chi – fu che per ognuna di queste statue si sarebbe fatto un saggio di scavo: un quadrato del lato di un metro. Ora, io credo che sia sufficiente essere persone di buon senso per capire che una buca con il lato di un metro non merita il nome di saggio di scavo. Ma tutto questo è stato fatto. Non nelle buie tenebre di qualche medioevo ma l’anno passato, distruggendo strati archeologici. Perché questo caso? Perché c’è di mezzo un grosso equivoco: l’arte contemporanea nel parco archeologico, perché altrimenti i visitatori non ci vanno; allora per farci andare i turisti mettiamoci l’arte contemporanea e roviniamo il sito archeologico che volevamo promuovere. Un ragionamento impeccabile.

Vengo al terzo esempio, un sito problematico. La mia preoccupazione nasce dalla relazione che ho appena ascoltato, perché ho casa in Val di Cornia e posso confermare e migliorare alcune delle cose che sono state dette. Credo che l’esperienza della Parchi Val di Cornia sia straordinaria, di grande avanguardia. Trovo in particolare che la parte nuova dell’acropoli di Populonia sia straordinariamente bella e ben fatta, trovo che ci siano prospettive straordinarie e anche i conti economici che non conoscevo e che il presidente della Parchi Val di Cornia ci ha fatto vedere sono straordinariamente importanti. Il giorno in cui si inaugurò l’acropoli di Populonia io avrei dovuto incontrare lì Riccardo Francovich che mi aveva scritto nell’ultima settimana due lettere estremamente preoccupate sul problema delle cave. Purtroppo Francovich morì proprio il giorno prima. Ma quello che lui poneva non è un problema minore. E’ un problema che, se non contenuto, distruggerà la Parchi Val di Cornia. Bisogna scegliere: o le cave o il parco archeologico. Una di quelle cave è dentro il parco archeologico. Si va nel parco archeologico e si viene accolti da una onnipresente polverina bianca. Si va da San Vincenzo a Venturina e si vedono delle vegetazioni esotiche: alberi con le chiome bianche. Perché le chiome sono bianche? Perché hanno appena esploso una qualche bomba, e la pietra frantumata produce ricadute di polvere, come la cenere del Vesuvio dopo un’eruzione. Intere foreste bianche che aspettano la prima pioggia! E quando la bomba nella cava vien fatta brillare nel mese di agosto, le piogge hanno un bell’aspettare. Accanto alla Rocca di San Silvestro uno dei camion che portano le pietre della cava è caduto – uccidendo tra l’altro il suo guidatore – ed è ancora li da anni: uno va nel parco archeologico e ci vede un camion. Voglio dire: è un caso di eccellenza, ancor più e meglio di quanto il Presidente della Parchi Val di Cornia non ci abbia detto. Ma allora: rendiamolo di eccellenza davvero, signor Presidente. Lo dico con calore perché il lavoro che avete fatto e che state facendo è meraviglioso! Fare un lavoro meraviglioso e darsi la zappa sui piedi in questa maniera è un suicidio! Perché volete commettere questo suicidio?

Non voglio concludere su questo tono e su questo tema ma vorrei citare alcuni temi finali. Quattro punti molto velocemente. Uno: per fare tutti questi nostri discorsi, lo sappiamo, le strutture pubbliche, a cominciare da quelle dello Stato che sono vitali per il mantenimento della tutela, hanno bisogno di risorse. La finanziaria in discussione taglia ulteriormente le risorse. Il Presidente del Consiglio, Romano Prodi, rispondendo a un appello del Fai che avevo contribuito a scrivere, un mese prima delle elezioni in cui questa risicatissima maggioranza riuscì comunque a farsi eleggere, si era impegnato pubblicamente, con un articolo sul Corriere della Sera, a riportare entro un anno il finanziamento dei beni culturali al livello che aveva l’ultimo anno del precedente governo di centrosinistra. Non lo ha fatto. Non lo sta facendo, e nella finanziaria di quest’anno taglia al livello più basso che ci sia mai stato anche per i governi di centro destra.

La seconda preoccupazione che vorrei citare e che si riferisce a tutto il settore, ma che nei parchi archeologici ha delle connotazioni particolari, riguarda il tema della formazione e della professionalità. Qui veramente – e questo è un tema che coinvolge anche il Ministero dell’Università – non si sta facendo quasi niente se non creare dei contenitori artificiosi e quasi tutti disfunzionali come i cosiddetti corsi di laurea in beni culturali che non funzionano quasi per nulla anche se sono pieni di persone di primissimo ordine sia fra i docenti che fra gli allievi. Ma il tema della formazione va affrontato seriamente. Come va affrontato – terzo punto – il tema del reclutamento. Non si recluta più nessuno a livello dei funzionari dello Stato: il Ministro Rutelli ha annunciato che l’intenzione è di fare un concorso per cinquecento nuovi posti. Non vediamo l’ora di vederlo scritto su una Gazzetta Ufficiale. Purché non siano dei reclutamenti ope legis: questo è un curioso Paese in cui devono passare avanti quelli che ci sono già rispetto a quelli che sono più bravi. Ecco perché, e qui vi do un dato recentissimo, nei recenti concorsi del Consiglio Nazionale delle Ricerche francese il 37% dei vincitori di posti sono italiani: i nostri ragazzi più bravi se ne vanno! Infine: ricordiamoci di quello che Gherpelli ha chiamato la “dignità delle strutture pubbliche”, che vuoi dire soprattutto la dignità di chi ci lavora. Da questo punto di vista è cruciale il riconoscimento di questa professionalità, non parlo solo del livello stipendiale, parlo anche del livello di riconoscimento sociale. Anche di quello stipendiale, perché se si confrontano gli stipendi dei più bravi fra i nostri con quelli dei corrispondenti funzionar! di altri Paesi dell’Unione Europea c’è di che rabbrividire. Ma credo che al di la di questo esista il problema di riconoscere le professionalità del settore, e di riconoscere, soprattutto a livello delle regioni, dei comuni, delle province, ma anche dello Stato (che sarà l’ultimo a cedere ma se continua questo andazzo cederà), l’indipendenza piena dei funzionari della tutela da ogni potere politico, la loro capacità di giudicare sulla base di una alta formazione, di una alta qualificazione, di una scelta fatta esclusivamente sulla base del talento e del merito, che dia loro dignità e autorità. Se parliamo di tutela, questo è davvero un prerequisito perché funzioni.

Salvatore Settis
Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali