Da una lapide alla storia: brevi riflessioni sul caso di Campiglia – Scrive Rossano Pazzagli
Una lapide non è la storia, ma può essere un buon inizio.
Sulla targa spuntata all’improvviso nella facciata di una vecchia casa di Campiglia non è il caso di fare polemiche, ma di sfruttare l’occasione per una vera ricerca storica che porti nuove conoscenze su un periodo cruciale per il territorio. Certo il Comune avrebbe dovuto documentarsi prima di autorizzare l’apposizione di una lapide storica, ma aldilà della targa della discordia, l’800 è certamente un secolo da studiare e valorizzare perché rappresenta un periodo di forte cambiamento della zona, di risanamento ambientale e di sviluppo economico e sociale. Ben venga dunque l’episodio sollevato dal Comitato per Campiglia se serve a richiamare l’attenzione sulla necessità della storia, non di una storia erudita e antiquaria, ma di una storia utile che sappia inserire le vicende locali nell’orizzonte più ampio.
Nei 25 anni del suo regno (1824-1859) Il granduca Leopoldo II visitò Campiglia molte volte, come del resto tutta la Maremma, che egli considerava un territorio “bello e languente, da tutti abbandonato”. Apparteneva a un’epoca in cui i governanti avvertivano ancora l’esigenza di conoscere da vicino ciò di cui dovevano occuparsi. Di questi viaggi Leopoldo II lasciò dettagliate e voluminose memorie scritte, che rappresentano un documento essenziale per ricostruire le condizioni ambientali e sociali del territorio. All’inizio del suo governo egli si era posto l’obiettivo di una rinascita della Maremma, da conseguire soprattutto attraverso la bonifica della pianura paludosa e malsana: le principali paludi erano quelle di Piombino, di Scarlino, di Castiglione della Pescaia e di Grosseto, ma da Cecina al confine con il Lazio era tutto un susseguirsi di stagni e acquitrini. Il borgo di Campiglia appariva strategico per osservare le grandi distese di acque e macchie che si aprivano verso la costa. Il sovrano lorenese venne una prima volta nel 1826: “salito a Campiglia”, poté osservare con preoccupata meraviglia le devastazioni delle acque e “la Cornia che moriva nel Padule”. Dopo il 1828, anno di istituzione dell’Ufficio del bonificamento delle maremme, egli intraprese quasi ogni inverno quelle che possiamo chiamare “campagne di Maremma”, cioè visite abbastanza prolungate per sovrintendere e incoraggiare le grandi opere di bonifica e di costruzione delle infrastrutture. Nella campagna del 1830 al centro dell’attenzione del granduca vi fu certamente la bonifica del Padule di Grosseto, con lo scavo e l’apertura del grande canale “diversivo”, un’opera imponente per quei tempi, che impegnò circa 3500 lavoratori e che consentì di colmare la bassa pianura con le acque torbide dell’Ombrone. A quest’opera grossetana si riferisce il testo della lapide di Campiglia. In quell’anno 1830 il granduca venne in Maremma almeno tre volte: a gennaio, ad aprile e al principio dell’inverno. Nel primo viaggio disse chiaramente che gli interventi più urgenti erano lo “scavo del diversivo” a Grosseto e il progetto della Via Emilia, ormai ridotta a una strada impraticabile; a San Vincenzo la carrozza granducale prese la via di Madonna di Fucinaia e il sovrano rivide Campiglia trovando il “borgo bastantemente sano”, da cui era “facile era il modo di scendere al ricco, sottostante piano”. Poi andò a Grosseto, che lasciò il 25 di gennaio.
Leopoldo tornò a Grosseto nell’aprile del 1830, dove il giorno 22 lo raggiunse anche la moglie, la granduchessa Maria Carolina che lui chiamava affettuosamente Nanny. Il granduca seguì di persona l’ultima fase dei lavori del canale, accertandosi che si potessero concludere entro l’estate, la stagione nella quale era difficile sopravvivere alla malaria endemica che colpiva chi frequentava questi luoghi, alimentando tra l’altro l’immagine e il canto struggente della Maremma amara. Il grande canale, a cui fa riferimento la discussa lapide campigliese, fu inaugurato il 26 aprile 1830: di buon mattino il granduca lo percorse a cavallo, poi con un colpo di fucile fu dato il via al flusso delle acque tra il giubilo della popolazione e dei lavoranti; in duomo venne cantato il Te Deum e la sera la linea del canale era illuminata da tanti fuochi accesi, mentre la città di Grosseto era in festa.
Leopoldo II partì l’indomani, fermandosi ad osservare i lavori della nuova strada Emilia. Nelle memorie, solitamente assai dettagliate, egli non fa cenno di essersi fermato a Campiglia, come sembra dire la targa, ma la documentazione archivistica ci potrebbe aiutare a dipanare l’episodio. In ogni caso la presenza del granduca a Campiglia è attestata in più occasioni e rientra nel suo interesse per l’intera area, che aveva suscitato in lui sentimenti di “compassione profonda” dai quali “Amor traeva a soccorrer Maremma.”
Tornò in Maremma nell’inverno seguente e nella primavera del 1831 passò ancora da Campiglia, dove assistette anche qui al canto del Te Deum in segno di ringraziamento per il procedere dei lavori di bonifica anche in Val di Cornia. In Maremma tornò anche nel 1832 e non mancò di seguire l’evoluzione del territorio negli anni seguenti. Una evoluzione che segna una indubbia traiettoria di sviluppo; a distanza di parecchi anni la scena era infatti sostanzialmente cambiata. Nel 1857, Leopoldo II giunse da queste parti l’11 maggio: scendendo dalla parte di Monterotondo si fermò a Suvereto, annotando che “il più povero dei paesi di Maremma era pur migliorato, aveva lastrici, scuola e chiesa, un principio di vita e di letizia.” Ritornò a Campiglia, nel cui territorio “si cominciava a fabbricare nuove borgate in situazione ariosa e salubre”; la popolazione era aumentata e il granduca scelse il luogo dove edificare il nuovo ospedale.
Tutta questa è in gran parte una storia da fare, e non si può improvvisare intorno a una lapide. Una prima risposta potrà venire dalla pubblicazione degli atti di un convegno sulla Maremma tra ‘800 e ‘900, promosso nel 2009 dall’Archivio di Stato di Grosseto, con nuove ricerche relative anche alla Val di Cornia. La storia ha i suoi metodi e più che alla tradizione orale o alle iscrizioni di una lapide discettando su inutili latinismi, servirebbero ricerche approfondite, fondate essenzialmente sulla documentazione d’archivio e sulla lettura del territorio, magari valorizzando così anche il patrimonio archivistico, l’insieme dei beni culturali storici e il lavoro di giovani laureati. La storia non serve solo a capire come andarono le cose, ma ad alimentare, come le acque di un fiume, il mare del futuro, specialmente in questi tempi di crisi dove il presente ci preoccupa e ci sfugge.
Nota: le citazioni tra virgolette sono tratte dalle memorie di Leopoldo II, raccolte in Il governo di famiglia in Toscana. Le memorie del granduca Leopoldo II di Lorena, a cura di F. Pesendorfer, Firenze, Sansoni 1987.
Rossano Pazzagli
Professore di Storia moderna all’Università degli Studi del Molise