Rimettiamo al centro il territorio perché diventi soggetto di uno sviluppo nuovo

Rimettiamo al centro il territorio perché diventi soggetto di uno sviluppo nuovo

La classifica del Sole24ore dà l’immagine di un’Italia divisa tra città e campagne, tra nord e sud. Ma non sempre i numeri riflettono le condizioni reali. Meglio partire dalla conoscenza e dalla coscienza di quello che c’è, piuttosto che dalla misura di quello che non c’è. Un commento sulla provincia di Grosseto, 66° in classifica.

Scrive Rossano PAZZAGLI*

L’Italia è un paese molto differenziato e da tempo vado sostenendo che non si può misurare tutta con lo stesso metro. La Maremma è un tassello significativo di questo ricco mosaico. Le aree rurali e interne, in particolare, non possono più essere misurate con i parametri dello stesso modello che le ha marginalizzate. Quasi tutti gli indicatori sono su base demografica, mentre non tengono conto del territorio.

Innanzitutto c’è da tenere conto che la provincia di Grosseto, se confrontata con il resto della Toscana e di buona parte dell’Italia, ha poca popolazione e molto territorio. La bassa densità demografica, classicamente considerata come un indice di arretratezza, può rappresentare oggi una condizione di vantaggio perché il territorio è la vera risorsa del Paese, come il paesaggio riflette le condizioni di vita. Proviamo a ribaltare il calcolo e ci ritroveremo una cifra di territorio pro-capite che in Maremma è molto più elevato che altrove.

Rimettere il territorio al centro delle indagini conoscitive e delle politiche è dunque una impellente necessità: non per sfruttarlo e riempirlo, né per trascurarlo o abbandonarlo, come abbiamo fatto in passato, ma per farlo diventare soggetto attivo di uno sviluppo nuovo, non solo economico ma anche umano, sociale, ambientale e culturale. 

Ecco il primato in classifica relativo alle imprese può significare questo: che la Maremma, con le sue aree rurali e interne, i suoi paesi e il suo paesaggio, è pronta per invertire la rotta dello sviluppo squilibrato, cioè di quello che nei 60 anni passati si è concentrato nelle poche polpe trascurando l’esteso osso del territorio italiano.

Proprio in questi giorni sono stato a Cinigiano per partecipare a un convegno sulle prospettive delle zone rurali realizzato in collaborazione tra Comune e scuola.

Non mi sembra che si viva male qui; sicuramente le condizioni di vita sono migliori di quelle delle periferie delle città. E si parlava di questo: di un patrimonio territoriale diffuso che giustifica la nascita di imprese, di nuove economie locali basate sul rapporto uomo-natura e anche di nuove forme di governance. Quello, come altri, è un piccolo grande comune, nel senso che ha un esteso territorio con diversi nuclei abitati, una elevata qualità ambientale e paesaggistica, una rete in crescita di imprese agricole e turistiche, una sindaca dinamica che sta cercando di difendere e di promuovere i servizi facendo rete con gli altri. Se c’è il patrimonio, fatto di vocazioni e di risorse, e si riportano i servizi, si stimola anche la creatività e l’attività imprenditoriale, magari piccola e diffusa, ma generatrice a sua volta di opportunità e anche – cosa non secondaria – di una ritrovata dignità sociale del mondo rurale.

Le classifiche ci restituiscono un’immagine mediana, ma non registrano i processi reali, dai quali bisogna ripartire per cogliere le effettive possibilità rinascita.

C’è stato un tempo in cui sembrava di non poter vivere nelle aree rurali, invece adesso sembra che qui si possa addirittura vivere meglio. È un dato che deve riportare fiducia, favorire l’accumulazione di capitale sociale, ridare voce a molte parti d’Italia la voce che avevano perduto.

Oggi che il modello di sviluppo industriale e urbanocentrico è in crisi, le aree deboli – rese deboli proprio da quel modello – possono rappresentare un laboratorio per sperimentare soluzioni nuove, che non siano schiave del mercato globale, ma protagoniste di un rilancio dei territori ingiustamente marginalizzati dal processo di sviluppo novecentesco e dalle politiche ad esso collegate. 

Con tutte le cautele su questo genere di classifiche, il dato sulle imprese è comunque interessante perché ci invita a guardare ai margini anziché al centro, a superare la visione polarizzata dello sviluppo a favore di una visione policentrica, diffusa, che metta in valore, senza consumarlo, tutto il territorio italiano. Ma, ripeto, partiamo dalla conoscenza e dalla coscienza di quello che c’è, non dalla misura di quello che non c’è. Solo così possiamo riacquistare fiducia. 

*Professore di storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise

Il Tirreno 19.12.2018

image_pdfSalva Pdfimage_printStampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *