Via Dini, un riferimento della storia di Campiglia?

Anoressiche, spericolate sono le persone destinatarie del divieto a non oltrepassare le sbarre, posto in via Dini su due lati del rudere, dal momento che tra le sbarre e le mura intercorrono trenta centimetri. Senza tener conto delle particolari doti atletiche necessarie per scavalcare le sbarre stesse, che sono di un’altezza ben superiore al metro.

Certo in questo modo sono del tutto inutili, ma almeno non impediscono il passaggio di persone e di auto in Poggiame, i cui abitanti ormai da anni convivono non soltanto con il rudere ma anche con le transenne.

Il rudere, visto dall’alto, è quasi suggestivo: un perimetro di sassi e massi, al cui interno sono cresciute erbacce e rovi.

Se non ci fosse un’orribile parabola che guasta la visione d’insieme, potrebbe diventare un riferimento della storia di Campiglia, al pari della Rocca, perché no?

Il tempo e l’ignavia giocano a suo favore.

Al pari della Rocca poi è testimonianza della storia del paese.

Poggiame è un quartiere di origini antiche, dove si dice e si scrive fu dato un rifugio ai poveri e diseredati negli anni in cui Campiglia passò dal dominio di Pisa a quello di Firenze.

Ricorrendo ad una contestualizzazione verbale, si trattò di “un intervento edilizio a favore delle fragilità sociali” di allora, in un periodo in cui il paese comunque cresceva di abitanti.

Ma il rudere di via Dini costituisce in realtà l’espressione di un declino abbastanza recente, avvenuto cioè nella seconda metà del secolo scorso, e che non coincide certo con gli anni dell’edificio attualmente in stato di abbandono.

Le testimonianze dal vivo che ci restano raccontano di un paese che una volta era ricco, in cui gli abitanti “dentro le porte” erano più di millecinquecento, anche d’inverno, le botteghe erano tante: alimentari, sarti, cappellai.

Ascoltare i racconti di quegli anni riporta ad un neorealismo dai contorni particolari, in cui “la frammentazione del ciclo produttivo” comportava che per fabbricare una cassa da morto occorresse un falegname, un lattoniere ed una sarta – la “Galona” – che ne rivestisse l’interno. Ed altre storie ancora…

Occorrono specifiche competenze e conoscenze per provare prima a comprendere e poi a spiegare le ragioni del declino, ma certo è che esso è legato ad una “virata” dell’economia campigliese. Anzi, una deriva, quella delle miniere e delle cave che – continuando ad usare la metafora marinaresca – ha portato ad una secca, dalla quale è difficile uscire se si continua a seguire la stessa rotta.

Le miniere sono chiuse e le cave non portano certo nuovi posti di lavoro, ma scempio ambientale. Irreversibile.

E’ cambiato il vento – dicono i campigliesi – da quando le colline sono state capitozzate.

Chissà fino a quando è stato abitato l’edificio in rovina di via Dini, la sua storia ne potrebbe raccontare altre, di famiglie, di vite, di miseria e di ricchezze, ma lo sfondo buio dello scenario resta pur sempre costituito dalle cave

Laura Riccio
Comitato per Campiglia